Categorie
Libri Qualità Recensione Spiritualismo

Lo zen e il tiro con l’arco

Ogni sforzo che ha l’autoglorificazione come punto di arrivo è destinato a finire rovinosamente.

Robert M. Pirsig

Esce nel 1948 questo piccolo libricino di meno di cento pagine, opera di un noto filosofo un po’ nazista, Eugen Herrigel, un enorme successo letterario che permane tutt’oggi, sebbene i nomi altisonanti di alcuni detrattori come Karl Jaspers e Volker Zotz.  Lo zen e il tiro con l’arco è stata un’opera che ha per la prima volta tentato di spiegare ad un pubblico generalista le fondamenta empiriche del misticismo zen. A dire il vero però il capolavoro di Herrigel è stato superato nell’iconografia pop da quello di Robert M. Pirsig, ovvero Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) , due opere che dicono più o meno le stesse cose, solo che Pirsig sostituisce il Buddha con la Qualità. Ma è un’altra storia per un altro giro, intanto beviamoci questa pinta in compagnia  – virtuale ma sempre compagnia è.

Cos’è intanto ‘sto zen? Essenzialmente è una pratica mistica che nasce come variazione nipponica del buddismo cinese ch’an (禪) che poi a sua volta è la traduzione cinese della parola sanscrita dhyana (ध्यान): questa è una virtù divina, la meditazione come forma di astrazione da se stessi – nella sua accezione originale può anche significare insensibile, ovvero privato della percezione fisica. La meditazione zen è quindi anch’essa trascendentale, comporta un distacco assoluto dal piano materiale passando attraverso se stessi, attraversando il nostro ego. A primo acchito ad un lettore contemporaneo è piuttosto normale sentirsi fuori contesto, oggi le formule metafisiche fanno sempre meno parte del nostro quotidiano in cui ci arrabattiamo tra frigoriferi tripla A, microonde che sanno meglio di te quanto è cotto il tacchino e ogni genere di appendice elettronica che ci ricorda quanto materiale sia questo mondo. Eppure lo zen non è assolutamente un elemento parallelo o discordante nei confronti della realtà tecnologica nella quale sguazziamo, proprio Pirsig, l’autore americano sopracitato, è stato un’insegnante di filosofia che ha trovato la chiave di volta dello zen nella praticissima e sporchissima manutenzione della motocicletta. 

Herrigel visse in Giappone per parecchi anni sopratutto per poter studiare il kyūdō (弓道) ovvero “la via dell’arco”, una pratica cerimoniale che molto ha che fare con la ricerca dello zen. Un elemento piuttosto curioso che Herrigel si troverà subito ad affrontare è infatti l’inaspettato materialismo della dottrina: 

«Avevo dunque riconosciuto che non vi può essere altra via alla mistica se non quella della propria esperienza e sofferenza e che senza tale premessa tutto quello che se ne può dire non sono che parole vuote.» 

Attenzione eh, non è che il filosofo qui sta dicendo che non si può parlare di carbonara se non si è chef stellati, il discorso verte sulla “sofferenza”, ma di che tipo di sofferenza stiamo parlando?

Scopriamo presto che il maestro di kyūdō di Herrigel è ben diverso da un maestro occidentale. Fin da subito non dimostra un grande interesse nello spiegare per filo e per segno ogni elemento della disciplina, piuttosto si limita a gettare semi nella speranza che la pratica costante ci imponga di porgerci le giuste domande. Tirare con l’arco è faticoso ma sopratutto ripetitivo. Herrigel cerca in tutti i modi di capirci qualcosa di quell’arte, scruta con attenzione i movimenti del maestro cercando di replicarli, ma fallisce sistematicamente. Gli ci vollero anni di apprendimento per capire poche ma fondamentali cose che poi altro non sono che i rudimenti della dottrina zen. Un primo tassello che in ordine di tempo riesce a carpire dal silenzio del maestro è che: 

«Simile all’acqua che riempie uno stagno ma è sempre pronta a defluirne, lo spirito può ogni volta agire con la sua inesauribile forza, perché è libero, e aprirsi a tutto perché vuoto. Tale condizione è veramente una condizione originaria e il suo emblema, un cerchio vuoto, non è muto per colui che vi sta dentro.» 

Può sembrare strano e complicato ma non  lo è. Lo zen è la virtù del mistico, è l’insensibilità, è un vuoto di stimoli e percezioni, è pensiero puro non corrotto dalla carne e dai difetti del carattere. In questo modo chi raggiunge lo zen può esercitarsi in ogni attività con maggiore consapevolezza, perché non è attraversato dall’ego ma dalla necessità stessa (pensate ai nativi americani e al loro vocabolario controllato, limitato, è una forma di misticismo non molto dissimile che punta anch’essa all’eliminazione dell’io di fronte alla grandezza dell’essere). 

«E perciò con questa presenza e piena potenza del suo spirito non turbato da intenzioni, e fossero le più nascoste, che l’uomo che si è svincolato da tutti i legami deve esercitare qualsiasi arte. Ma perché egli, in perfetto oblio di se stesso, possa inserirsi nel processo formale bisogna che sia avviata la pratica dell’arte.» 

Tra i grandi conoscitori dell’oblio di se stessi in Italia abbiamo avuto Carmelo Bene, un pensatore trasversale e controverso, fonte di straordinarie riflessioni e imperdonabili super-cazzole, infine artista indiscutibile. La pratica di Bene a teatro non era così diversa sa quella di Herrigel, l’estenuante ripetizione non si replicava mai davvero allo stesso modo, perché era in costante ricerca dell’oblio di sé, in modo tale che ogni movimento come la voce fossero asserviti all’urgenza stessa senza passare attraverso l’attore. Tutto questo può sembrare una gran confusione per non dire niente, ma immaginatevi a casa davanti ad un bel foglio bianco mentre tentate di riprodurre a matita il personaggio fumettistico “Frank” di Jim Woodring:

Sembra facile, eh? Ed invece non riuscite a mantenere le proporzioni, cancellate in continuazione e vi viene un bel porcaio. Come tutte le cose anche per il disegno la ripetizione costante è l’unica soluzione per poter imparare a maneggiare la tecnologia matita e applicarla al suo meglio. Ma nella pratica della ripetizione vi renderete conto che non state più disegnando “Frank” ma delle linee, e che ognuna di esse avrà la sua storia, il suo motivo, la sua necessità, che c’è quella che vi veniva bene fin da subito e l’altra che ogni volta non torna mai, che il dorso della mano è facile ma la proporzione dei piedi non è calibrata con quella testa. Ogni punto, ogni nero, ogni bianco, prenderanno senso da soli, fuori dal contesto originario, e quando non penserete più né a “Frank” né alla matita sarà il momento in cui lo disegnerete nel modo più intuitivo e deciso. Questo non significa che il disegno sarà uguale in tutto e per tutto a quello di Woodring, perché non era questo l’obiettivo, l’obiettivo era che voi disegnaste “Frank”. In questa piccola nota c’è la differenza tra interpretazione e copia. Lo zen non cerca l’assenza di sé senza scopo, ma lo scopo diventa così rarefatto nella ripetizione da assolversi nell’urgenza del gesto:

«Se tutto dipende dal sapersi inserire nell’accadimento col perfetto abbandono di sé e di ogni intenzione, il compimento esterno dovrà prodursi come da solo, senza che la riflessione lo guidi e lo controlli.»

A questo punto Herrigel si trova a dover riflettere sul valore dell’imitazione. Proprio come noi abbiamo imitato il disegno di Woodring anche Herrigel nel lontano Giappone imitava i gesti del suo maestro, cercando di coglierne l’essenza e cercando di non pensare troppo all’arco, alla freccia e al bersaglio. Eppure lo scoglio più difficile da superare era la mancanza di spiegazioni empiriche, non era abituato Herrigel – come ogni buon occidentale a dire il vero, a guardare soltanto. A scuola da noi ogni cosa viene spiegata per filo e per segno, se se vai a fare un corso di tiro con l’arco ogni minimo movimento viene discusso ed esplorato anche dialetticamente. Ma non è questa la scuola di pensiero giapponese dello zen:

«Dare l’esempio, dare il modello; immedesimarsi, imitare – questa è la relazione fondamentale dell’insegnamento[…]»

Eppure per noi occidentali “imitare” si ricolloca in un universo ben definito che è quello del teatro ellenico. «Imitare persone in azione» è la definizione che Aristotele da nella Poetica di Teatro. La rappresentazione drammatica per il pensatore greco si compone insomma di pochi elementi:

  • Attori
  • Imitazione (mimesi; μίμησις)
  • Azione

Gli attori sono coloro che tramite maschere e congegni prossemici ben definiti, rappresentano altro da sé, e sono legittimati dalla loro capacità imitativa. Ma perché questo abbia senso c’è bisogno di azione, ovvero che si muovano e diano vita al testo. Esattamente in questo modo si pone il maestro giapponese nei confronti di chi voglia imparare lo zen, esso rappresenta altro sa sé, non si avvale delle parole perché queste non rappresentano l’essenza della pratica zen, ma ne imita i modi e le forme finché l’allievo possa assimilarle e farle proprie:

«Un maestro di fiori comincia la lezione sciogliendo con precauzione il legaccio che stringe i fiori e i rami fioriti, e dopo averlo arrotolato con cura, lo mette da parte. Considera quinti i singoli rami, dopo ripetuto esame ne sceglie i migliori, dà a essi, piegandoli delicatamente, la forma che devono assumere secondo la loro funzione e finalmente li dispone in un vaso appositamente scelto. La composizione, al suo termine, appare come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni oscuri.

[…]i maestri si comportano come se fossero soli. Agli allievi non concedono neppure uno sguardo, tanto meno una parola. Compiono i preparativi calmi e assorti, si perdono, dimentichi di sé, nel processo creativo delle figure e delle forme, e ad ambedue esso appare, dalle operazioni preliminari all’opera compiuta, un accadimento in sé conchiuso. Ed esso è in realtà dotato di una tale potenza espressiva da agire sullo spettatore come un quadro.»

Qua Herrigel dice una cosa che, nella mia abissale ignoranza, mi ha molto colpito – probabilmente per i motivi sbagliati, ma non credo che il filosofo tedesco se ne avrà. Una delle cose che più mi hanno sempre dato fastidio della pratica critica è un principio nato negli anni ’60 e che ho sempre combattuto, ovvero “lo sguardo del bambino”. Questa è l’idea che per potersi davvero immergere nell’opera d’arte bisogna predisporsi con la nudità di pensiero tipica dei bimbi, che tutto ignorano e che sono quindi propensi alla costante meraviglia. Per me invece il critico dovrebbe approcciarsi con ben altra intenzione, carico delle sue esperienze e dei suoi studi, capace di approcciarsi anche in modo originale ma senza dimenticarsi del contesto che ha appreso fin lì. Solo leggendo Lo zen e il tiro con l’arco mi sono reso conto che non era così scontato il significato dietro lo “sguardo del bambino”, ma nella sua irrequieta contraddizione (tipica di tanti concetti che hanno contraddistinto quegli anni) svela un approccio decisamente zen. Bisogna dimenticarci del perché siamo a teatro o al concerto, dei musicisti o degli attori, essendo che l’arte è una pratica proprio come il tiro con l’arco o la manutenzione della motocicletta, dobbiamo porci come degli allievi zen che guardano il maestro disporre i fiori nella sequenza ideale senza che ci sia apparentemente una sequenza ideale.

«E allora è come se voi, invece di svolgere la cerimonia come qualcosa d’imparato a memoria, la improvvisaste seguendo l’ispirazione del momento, così che danza e danzatore siano una cosa sola.»

L’esercizio critico non è quindi passivo ma diventa parte integrante della proiezione artistica, e così capisco meglio anche Carmelo Bene quando si scagliava contro i critici dicendo che per giudicare un’artista ci vorrebbe un poeta.

Di questo insomma si basa lo zen, un’unione armonica di tutte le cose sotto la Verità – che si svela nella sua potenza quando ad osservala siamo noi ma senza lo spettro del nostro ego. In questo la filosofia zen ben si discosta dal dualismo occidentale di soggetto-oggetto, che poi è proprio quello che interessa a me come critico, nel mezzo tra la relazione tra soggetto e oggetto c’è lo zen che definisce il valore dell’interazione, potremmo dire che ne rivela la Qualità. E proprio di Qualità scrisse Pirsig nel suo Zen, ma non è ancora il momento di questa pinta. Torno a giocare a Final Fantasy Tactics Advance, tutta questa filosofia prima di pranzo di mette agitazione. 

Le citazioni sono state estrapolate da “Lo zen e il tiro con l’arco”, Adelphi Edizioni, 2011, trad. Gabriella Bemporad.